Note critiche di Lucio Del Gobbo - Note critiche - Lucio Del Gobbo
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Note critiche

Calisti: senzazioni di paesaggio

 

La Marca così mi piace chiamarla, al singolare femminile, perché ha corpo e identità di donna, come dimostrano le sinuosità del suo entroterra, il biondo turchino della sua costa e i non del tutto rivelati segreti dei suoi monti azzurri è timida, velata di pudori, con bellezze recondite che svela soltanto agli intimi, quando lo meritano. Grazia muliebre è la sua, in cui forme e colori si armonizzano con naturalezza, nella confidenza dei cuori. Veste abiti dai toni sobri e dolci sfumature, che dismette e muta con il variare delle stagioni, per non annoiare, per sorprendere ogni volta chi l’ama. Non cerca l’avventura, l’ostentazione, il frastuono: è raccolta ed intima come chi intenda riservarsi solo al grande amore. Ma delle sue grazie si parla, e molti si muovono da lontano per scoprirle e ritrovarle. Stefano Calisti, pittore, ha una vacazione: di esserne interprete e cantore; con modi eclatanti ed eccitati tenta di scompigliarne il pudore e proclamarne a gran voce la bellezza. Con la sua tavolozza le mette il trucco, aumentando così i suoi già intensi desideri di vagheggiatore.

 

Aveva cominciato a corteggiarla quand’era non giovanissimo e già abbastanza riflessivo. In verità era stato il paesaggio ad attrarlo, come genere, aveva capito che era un soggetto confacente al suo temperamento e all’idea che si era fatto dell’arte e della pittura: una cosa spontanea, non cerebrale e comunque espressiva, sensuale e al tempo stesso casta. Consapevole dell’esistenza di una tradizione artistica regionale l’aveva condivisa guardando al paesaggio come esercizio e rappresentazione d’un’ “amabile convivenza”. Distingueva in tale solco, la tensione poetica: una visione mai totalmente asservita al dato naturalistico, né condizionata dall’esigenza d’un resoconto di realtà, ma sollecitata dal sentimento di mettere in rapporto il particolare con l’universale, il materiale con lo spirituale; in quell’immaginario Leopardi e Licini erano sempre stati presenti, come voci ‘fuori campo.

 

In un momento storico in cui sembrava che nell’arte dovessero ancora prevalere la concettosità, il poverismo alludente, una ricerca esasperata di originalità spesso sfociante nell’arida stravaganza, Calisti, senza alcuna vanità ideologica, aveva scelto di difendere un suo desiderio di rappresentare la realtà con la stessa spontaneità con cui ne captava il fascino, come se le uniche ed autentiche rivelazioni dovessero concentrarsi nella persistenza di un ‘azione combinata tra manualità, applicazione ed una provvidenzialità connaturata alla pittura stessa: il colore.

 

A questo, per altro, era stato “educato” sin da giovanissimo da un artista che, essendo amico di famiglia e vicino di casa, come per fatalità gli è stato anche maestro: Wladimiro Tulli.

 

Nella sensibilità di Calisti, paesaggio erano le stagioni, e quindi il tempo, paesaggio i colori e le forme, e quindi i sensi, paesaggio la luce, i suoni, i profumi, e quindi lo spirito, la poesia, l’amore. Si era messo a dipingere così, con controllata sprovvedutezza, senza altra preoccupazione, che impastar colori e creare forme che raccontassero anche se stesso, le proprie innocenti emozioni. Gli era piaciuto insomma praticare zone ritenute consuete e tradizionali della ricerca, tenendo tuttavia presente un’esigenza di modernità. Le sue vedute, dietro a quel colore squillante in cui si realizzavano, quasi di luce al neon, lasciavano intravedere un discorso interessante su naturalità ed artificio, sul modo di interpretare e di guardare al paesaggio con i condizionamenti e gli influssi derivanti da una visione sempre più condizionata da luci artificiali, trasposta nei mass media, meno bucolica e naturalistica.

 

Si direbbe che Calisti, con una appropriata elaborazione tecnica, abbia voluto cercare nella figurazione paesaggistica quella libertà che nell’arte e nell’arte visiva in particolare viene detta comunemente “astrazione”. Il paesaggio, con le sue morfologie che non sono forme codificate, con i suoi colori che sono mutabili e indefiniti, è l’astrazione fatta natura. La pittura (in questo molto simile alla musica) vi trova respiro e ispirazione; esso consente all’artista una libertà quasi illimitata: la libertà di rappresentare nelle forme e nei colori che sono fuori le sensazioni e i sogni che sono dentro, nel profondo dell’animo.

 

Il colore che precedentemente aveva stesure sottili e campiture piane e scandite, in una fase successiva tende ad aggrumarsi in maniera più densa e spessa: una sorta di materia-colore derivata da impasti e resine acriliche con pigmenti di diversa natura accostati a zone, di evidente consistenza materica ed organicità: suggestioni parallele, tattili e visive insieme, come per un ‘esigenza di far corrispondere all’annotazione visiva una testimonianza più concreta, mimetica di quella stessa materia che da corpo alla realtà rappresentata.

 

Nei paesaggi di Calisti se si fa caso, non c’è traccia di figura umana; la natura è protagonista quasi esclusiva. In quel vuoto stabilito – una assenza-presenza, come di chi non ci sia più o non ci sia ancora – credo che Calisti intenda rappresentare un’altra forte suggestione. Le sue “luci di scena” restano accese per una veglia diurna che può essere intesa come veglia di commemorazione ma sicuramente anche di attesa: rappresentazione di una etnia evocata e visualizzata in modo indiretto. Nell’antica storia di questa regione la natura ha sempre prevalso sull’artificio del paesaggio costruito, sulle grandi aggregazioni urbane: il carattere dei suoi abitanti ha certamente risentita di ciò. Il pescatore, il contadino, il pastore montanaro, nelle lunghe soste o nelle veglie, hanno ricevuto da quell’intima vicinanza, dai suoi ritmi cadenzati e immutabili, sapere, ammaestramenti, civiltà. La riflessività silenziosa, il buon senso, la saggezza, la sensibilità spirituale, derivano alla gente marchigiana più da questo simbiotico rapporto che dalla storia dei suoi traffici, dai commerci e dalle relazioni con altre terre e con altre società. Anche nei paesaggi di Calisti, sebbene non compaia l’uomo e forse proprio per questo, sembra di cogliere le peculiarità di questa etnia e il radicamento alla terra. E forse questa naturalità, dominante anche nelle tele, deriva proprio dalla sensazione che la natura esprima in sé lo spirito della storia e degli uomini più che altri simboli ed argomentazioni.

 

Lucio Del Gobbo